Egregio Direttore,
Le chiedo ospitalità con l’intento di contribuire al dibattito circa la riorganizzazione degli enti territoriali. Tema riesploso con tutto il suo vigore in questo periodo nell’agenda governativa e politica, con l’intento dichiarato di perseguire una maggiore efficienza amministrativa – servizi migliori con una minore spesa - che nell’accezione contingente consiste nella riduzione dei costi della politica.
Che i servizi debbano essere migliorati (specialmente in alcune parti del territorio nazionale) e che per l’erogazione dei servizi attuali vi siano gravi sprechi economici (specialmente in alcune parti del territorio nazionale) è cosa risaputa da tempo e da tempo la popolazione confida vengano adottati i necessari accorgimenti.
Gli accorgimenti che si prospettano all’orizzonte, dopo che sono rimasti inspiegabilmente inattesi gli obiettivi proclamati nei programmi delle ultime elezioni politiche da parte dei partiti maggiori, sono dettati da un “commissariamento” popolare (prima che dal “commissariamento” europeo) che rivendica a gran voce la diminuzione della spesa pubblica per il mantenimento della macchina politico/amministrativa.
La risposta governativa, sia del Consiglio dei Ministri uscente che di quello guidato dal Prof. Monti, pare improntata alla soppressione di alcuni enti territoriali, piccoli comuni e province, con criteri spartani - numero di abitanti o estensione territoriale al di sotto di una certa soglia – senza precisare peraltro il processo con cui gli enti soppressi dovranno essere integrati con altri di maggiore dimensione.
Se da un lato va plaudita la volontà di tagliare i costi della politica insiti nell’attuale assetto degli enti locali, dall’altro non può essere sottaciuta la leggerezza, indotta dalla necessità di recuperare il tempo perso, con cui la proposta di tali tagli viene avanzata; venendo meno secondo me ad uno dei cardini principali del pensiero liberale postrivoluzionario, suffragato e supportato dall’esperienza storica moderna e contemporanea e ispiratore del principio di sussidiarietà in diritto amministrativo. E cioè la corrispondenza tra la “consistenza istituzionale” e la “consistenza territoriale” da governare. Intendendo che non vi possono essere efficienza ed efficacia amministrativa se l’istituzione pubblica non è correttamente proporzionata e correlata alle dimensioni ed alle caratteristiche dell’ambito urbano e sociale ad essa sottoposta.
Lo Stato non può occuparsi efficacemente dei problemi di piccoli comuni (la storia ci ha insegnato che l’accentramento delle funzioni governative porta a fallimentari sistemi totalitari), così come la giunta di un Comune è strutturalmente incapace di risolvere compiti di “ampia area”.
Consistenza territoriale che non può essere misurata unicamente dal numero di abitanti degli enti territoriali esistenti, o dalla loro estensione, ma dalla “opportunità” che più enti “omologhi” si accorpino per governare i processi urbani, economici, ambientali, ricreativi e culturali dei loro territori con la migliore efficienza possibile.
L’onda emotiva, se pur basata su presupposti reali e giustificati, della riduzione dei costi della politica, non può far velo al fatto che i maggiori sprechi non sono annidati nei costi di gestione dei consigli e delle giunte comunali, ma nello scoordinamento delle scelte amministrative che ogni ente locale si sente legittimamente di attuare in modo avulso dai comuni contigui.
Stante la profonda trasformazione urbanistica e sociale delle nostre città, ci si deve rendere conto che discutere e deliberare di “Piano di Governo del Territorio”, di “Piano della Mobilità e del Traffico”, di “Piano dei Servizi” per un solo comune (qualunque dimensione abbia) non ha più significato alcuno se nel contempo non si coinvolgono gli enti locali omologhi contermini.
E’ fortemente diseconomico ed ambientalmente inaccettabile che comuni che distano pochi chilometri l’uno dall’altro si impegnino tutti (l’uno all’insaputa dell’altro) a realizzare la propria piscina, il proprio centro sportivo, il proprio centro commerciale, il proprio centro produttivo, il proprio polo di edilizia agevolata ed infine il proprio polo di accoglienza/integrazione per gli immigrati. Abbiamo sprecato troppo arroccandoci dietro un “campanilismo” che con le trasformazioni sociali avvenute e la globalizzazione in atto non ha più ragione storica di esistere.
Ritengo che l’autoidentificazione delle comunità, che molti ritengono verrebbe intaccata a fronte di politiche che tendono all’accorpamento di più comuni, non verrebbe in alcun modo minata da una più larga e oculata gestione amministrativa. Se il mantenimento dell’identità socioculturale di ogni Comune non può prescindere dal trend di spesa sin qui sostenuto, non possiamo che essere votati all’aumento del debito pubblico, ed alla fine con tutta probabilità all’impossibilità di conservare le identità stesse.
In sintesi ciò che sostengo è che per rendere più moderna ed efficiente la macchina amministrativa del nostro Paese, necessita ridurre in primo luogo il numero dei Comuni. Erano 7.720 nel 1861, sono diventati 9.194 nel 1921 e sono attualmente 8094. Processi di espansione e di integrazione ci sono già stati, sostanzialmente per problemi di opportunità politica. Oggi una integrazione più spinta è dettata da problemi di efficienza per rispondere alla moderna necessità di servizi e di concorrenza con altri paesi europei.
E’ utopistico pensare che in futuro si possano creare assetti istituzionali che “assorbano” quelli esistenti (talvolta di consistenza non superiore ad un amministratore condominiale di poche unità abitative) senza umiliare le specificità locali; riducendone il numero alle aree omologhe individuate di comune accordo e dietro adeguati incentivi, con conseguente enorme guadagno in efficienza amministrativa ?
Se ciò fosse possibile ci si dovrebbe certamente interrogare sul ruolo e sull’assetto delle Province attuali. Interrogazione che pensavo fosse implicita nelle affermazioni propagandistiche elettorali circa la loro soppressione da parte della maggioranza venuta meno in questi giorni e spero sia sottintesa nelle prime enunciazioni in merito da parte del Presidente del Consiglio Monti. Così come ritengo sia storicamente tempo di fare qualche riflessione circa l’autonomia (leggesi maggiori trasferimenti statali ormai ingiustificati) di alcune Regioni.
Di certo detta riorganizzazione istituzionale non può essere improvvisata e richiede necessariamente un articolato processo di revisione storica dell’assetto attuale, onde non incorrere nelle reazioni “ragionevoli” o “opportunistiche”, di cui abbiamo già conclamate avvisaglie da parte di chi di politica vive, fingendo di ignorare che a patire saranno le prossime generazioni. Forse si potrebbe scoprire che non è necessaria una revisione costituzionale, ma semplicemente la riconfigurazione degli enti territoriali.
Volendo esemplificare mi riferisco al territorio bresciano che meglio conosco, ma sono certo che lo stesso discorso vale per tutte le altre realtà territoriali italiane. Credo di non contravvenire ad un diffuso sentire circa l’omologabilità dei territori comunali bresciani appartenenti alla Val Camonica, Val Trompia, Val Sabbia, Sebino/Franciacorta, Lago di Garda Occidentale, Basso Garda/Valtenesi, Brescia con i comuni della cintura, Bassa Bresciana Occidentale e Bassa Bresciana Orientale. Se i Comuni appartenenti a dette aree rinunciassero a parte della loro sovranità si potrebbero costituire realtà territoriali nuove con maggiori capacità amministrative e minori sprechi (sia per la presenza di minore personale politico ed amministrativo, che per la maggiore capacità di pianificare i servizi e la relativa spesa). Solo così può essere pensabile l’abolizione dell’attuale Provincia.
Se mi è concesso, per concludere vorrei chiedermi se effettivamente esiste una spinta politica nel nostro Paese che ci possa far sperare che il processo di revisione della macchina amministrativa possa trovare positiva conclusione; sia pur diversa da quella qui prospettata, ma che voglia perseguire l’ineluttabile obiettivo dell’efficienza e della competitività internazionale.
Confido di non incontrare forti contrarietà, se non per la necessitata semplificazione, nel sostenere che, così come lo spirito di solidarietà nazionale a guida prevalentemente democristiana ha caratterizzato gli anni ’60, gli anni ’70 sono stati contraddistinti dal “parallelismo convergente” del “compromesso storico” di berlingueriana e moroniana memoria e gli anni ’80 hanno visto predominare il tema (irrisolto) del riformismo istituzionale sotto l’impulso craxiano, dai primi anni ’90 ad oggi il tema politico che si è imposto con maggior rilevanza sia quello del federalismo, ripreso intellettualmente dal Prof. Miglio ed interpretato politicamente da Bossi e dal popolo leghista.
Non voglio fare qui alcuna analisi politica sul movimento leghista e sulla sua collocazione nel panorama politico nazionale; ciò che mi interessa è la constatazione che, sebbene ognuno lo abbia inteso a proprio modo, dietro il termine federalismo pressoché tutti hanno letto la possibilità di creare un sistema amministrativo nazionale più responsabile ed efficiente, eliminando gli evidenti sprechi e le ataviche iniquità sociali.
La sensazione di questi giorni però è che questo progetto, per il quale ad un certo punto pressoché tutte le forze politiche si sono dichiarate disponibili, venga ridotto alla semplice “eliminazione delle Province”, che se non fatta seriamente comporta tutte le contraddizioni sopra evidenziate.
Vincenzo Bonometti
ex Sindaco Comune di Ghedi (BS)